L’urgenza di cambiare il modo di guardare all’economia
Inflazione, debito pubblico, banche centrali... Christophe Morel, capo economista di Groupama Asset Management, fornisce il suo parere di esperto sulle prospettive economiche globali.
Lei difende la tesi poco condivisa di un “boom degli investimenti”. Perché?

Per finanziare la transizione ambientale e l’indipendenza strategica (difesa, digitale, salute, energia, catena alimentare), le economie sviluppate dovranno investire massicciamente! Per esempio, in Europa, sarebbe necessaria una crescita degli investimenti in termini reali dell’ordine del 4% all’anno per 10 anni. Possiamo davvero evocare la prospettiva di un “boom degli investimenti”.
E l’occupazione?
Se le aziende investono, allora hanno bisogno di assumere per avere successo in queste transizioni. Gli investimenti e l’occupazione sono “complementari”. Il ciclo favorevole agli investimenti permette di ipotizzare una resilienza del mercato del lavoro, o addirittura la “piena occupazione”. Questo mette in discussione la minaccia di stagflazione, definita come un contesto che combina elevata inflazione, bassa crescita e deterioramento del mercato del lavoro. Al contrario, il contesto di ricostruzione a medio termine si avvicina ancor più alla “reflazione”!
Cambio di paradigma
Sta per caso ipotizzando un’inflazione salariale?
Esattamente! Le aziende si trovano di fronte a una doppia carenza di manodopera. Da un lato, l’invecchiamento demografico riduce la disponibilità di capitale umano in “quantità”. D’altro canto, la necessità della transizione richiede nuove competenze che non sempre esistono. Questa carenza è attualmente amplificata dai freni all’immigrazione e dalle nuove preferenze dei dipendenti, ad esempio per lo smartworking. Tutti questi fattori alimentano costantemente l’inflazione salariale.
Dall’inizio del 2021, lei sostiene che l’inflazione “non è transitoria” e che c’è addirittura un “cambio di regime nell’inflazione”. Oggi il suo punto di vista è diverso?
No! I periodi di cambiamento del modello economico sono “per natura” inflazionistici. Le transizioni, infatti, richiedono molte risorse che non esistono necessariamente in quantità sufficiente. Il boom degli investimenti si traduce quindi in un nuovo regime di inflazione, che si concretizzerà in aumenti dei prezzi delle materie prime, ma anche e soprattutto del prezzo del capitale umano e del capitale finanziario.
Che cosa intende per aumento del “prezzo del capitale finanziario”?
L’aumento dei tassi di interesse! Nel “mondo di prima”, caratterizzato da una forte avversione al rischio, i tassi di interesse nulli o negativi erano il sintomo di bassi investimenti. Se il tasso di investimento aumenta senza adeguamento del risparmio, questo si traduce in una tensione sulla disponibilità della risorsa finanziaria attraverso il suo prezzo, vale a dire il tasso di interesse. Pertanto, la tendenza dei tassi di interesse rimane al rialzo.
Dobbiamo concludere che le recenti crisi sono state dei catalizzatori di questo cambiamento di paradigma?
È proprio il susseguirsi delle crisi di questi ultimi anni a far emergere la necessità di investire in misura massiccia. Le tensioni commerciali tra gli Stati Uniti e la Cina hanno evidenziato la necessità di tecnologia. La crisi del Covid ha sottolineato l’esigenza di migliorare l’indipendenza sanitaria. Gli eventi climatici ci hanno ricordato l’urgenza della transizione ambientale. Infine, la guerra in Ucraina ha accentuato la necessità di reinvestire nella difesa, nella sicurezza alimentare e nell’indipendenza energetica.
Il debito pubblico
La crisi sanitaria ha avuto un ruolo particolare?
Si, nel senso che ha provocato un cambiamento di “logica ” sul debito pubblico. La crisi del debito sovrano in Europa, perlopiù una crisi della governance europea, ha generato timori ampiamente diffusi. Con la crisi sanitaria, l’indebitamento pubblico è aumentato immediatamente nei paesi sviluppati, passando da 10 a 30 punti di PIL, senza che ciò abbia provocato una crisi finanziaria. Ciò ha alimentato una riflessione collettiva che ha condotto a un cambio di “logica” sul debito pubblico.
Quale cambio di “logica”?
In primo luogo, dobbiamo renderci conto che lo Stato non è un agente economico come gli altri perché la sua durata di vita è “infinita” e perché emette il denaro che spende. In secondo luogo, la priorità non è di equilibrare il bilancio dello Stato, ma di equilibrare l’economia. In realtà, i deficit nelle infrastrutture, nella sanità, nell’istruzione o nella transizione ambientale dovrebbero preoccupare di più dei deficit di bilancio dello Stato. Ad esempio, la Commissione Europea distingue chiaramente tra spese di gestione e spese di investimento.
Quindi non c’è limite all’indebitamento?
Certo, che c’è un limite! Ma il debito deve essere concepito in modo più ampio che dal solo punto di vista monetario. Naturalmente, uno Stato che si indebita lascia il peso del rimborso alle generazioni future. Ma uno Stato che non agisce per affrontare la transizione energetica, per esempio, penalizzerebbe comunque le prossime generazioni. Quindi, vi è il debito che si misura e tutti i debiti che non si misurano, come il “debito ambientale”. Non dobbiamo dimenticare che anche il non agire comporta dei costi!
Sta sviluppando una sorta di approccio “olistico” all’economia?
Occorre un approccio più ampio al debito. È inoltre necessario un approccio più ampio agli asset. Al di là degli asset fisici, finanziari e umani, vi sono asset intangibili, molto spesso sottovalutati. La crisi finanziaria ci ha ricordato che la trasparenza è un asset. La crisi del debito europeo ci ha dimostrato che una buona governance riduce i premi di rischio. L’attuale crisi geopolitica dovrebbe ricordarci che la pace è un asset intangibile molto spesso sottovalutato.
Quindi, lei non si sente preoccupato per la sostenibilità del debito pubblico?
Naturalmente, dobbiamo tenerlo d’occhio. Ma la traiettoria dell’indebitamento pubblico ha due freni sul decennio attuale. In primo luogo, l’aumento del costo del debito sarà solo graduale rispetto al precedente calo dei tassi di mercato. In secondo luogo, la crescita nominale è destinata a essere superiore ai tassi nominali in questo periodo di ripresa degli investimenti, il che favorisce la sostenibilità dei debiti pubblici e consente persino una graduale riduzione del debito nel tempo.
Banche Centrali
C’è un cambiamento di paradigma anche da parte delle banche centrali?
Sì, e si possono citare due cambiamenti. In primo luogo, le banche centrali hanno fatto tesoro dell’esperienza monetaria degli anni ’80 e, in caso di recessione eviteranno di abbassare il tasso di riferimento per non stimolare le aspettative di inflazione, nonostante sia costoso nel breve termine per la crescita. In secondo luogo, il “Put” delle banche centrali in caso di correzione dei mercati finanziari non è più automatico. Le ultime dichiarazioni dei banchieri centrali mostrano che il miglioramento delle condizioni finanziarie non viene necessariamente percepito in modo positivo.
Quali sono i fattori determinanti nel processo decisionale delle banche centrali? Le aspettative di inflazione?
Il ruolo delle aspettative di inflazione nella formazione dei prezzi può essere interessante sul piano teorico ma è opinabile: gli operatori economici sono davvero razionali nelle loro decisioni? Questo ragionamento viene d’altronde contestato empiricamente: qual è il “vero” senso della relazione tra l’inflazione e le aspettative di inflazione? Credo che le banche centrali attribuiscano troppa importanza alle aspettative di inflazione.
Cos’altro?
Se l’influenza delle aspettative di inflazione sulla formazione dei prezzi è sopravvalutata, significa che l’impatto di altre variabili è sottostimato, in particolare l’influenza del mercato del lavoro. Le pressioni sul mercato del lavoro rappresentano la variabile principale nelle decisioni di politica monetaria. La curva di Phillips, che stabilisce un legame tra disoccupazione e inflazione, rinasce dalle sue ceneri!
E le statistiche mensili di inflazione?
Questa è probabilmente la variabile n. 2. Esiste di fatto una soglia di inflazione a partire dalla quale i comportamenti economici si modificano. Abbiamo stimato che a partire da un’inflazione dell’8%, le famiglie e le imprese diventano più attente all’evoluzione dei prezzi e si adeguano più sistematicamente, soprattutto attraverso contrattazioni salariali. Si innesca il loop “Prezzo/Salari”.
Recessione mondiale
Prevede dei Fed Funds al 6%. Perché?
Il mercato del lavoro è la variabile chiave. Attualmente, negli Stati Uniti, la domanda di lavoro supera l’offerta di circa 4,5-5 milioni, il che alimenta un’inflazione salariale nel settore privato intorno al 6%. Per garantire il target di inflazione del 2%, la Fed deve riportare la crescita dei salari a un tasso del 3,5-4%. A meno di non presupporre un forte aumento del tasso di partecipazione, la Fed deve allora “forzare” il calo della domanda di lavoro provocando una recessione ciclica. Per farlo, deve portare il tasso di riferimento al di sopra del 5%.
Quindi lei prevede una recessione dell’economia globale?
Le economie sviluppate si trovano di fronte a tre avversità che le spingeranno verso la recessione. In primo luogo, gli stock si sono fortemente ricostituiti in molte aziende industriali, cosicché esse sono ora vulnerabili a un calo degli ordini. In secondo luogo, l’aumento del prezzo delle materie prime energetiche penalizzerà la domanda, soprattutto in Europa. Infine, negli Stati Uniti, l’inasprimento delle politiche fiscali e soprattutto monetarie porterà l’economia in recessione.
Dobbiamo temere questa recessione?
Sarei quasi tentato di dire che esiste una “recessione buona” e una “recessione cattiva”. Le ultime recessioni sono state profonde perché legate a squilibri finanziari. Questa volta, la recessione sarà più “classica”, legata all’aumento dei prezzi delle materie prime in Europa e al surriscaldamento dell’economia negli Stati Uniti. Le economie si riprendono molto più rapidamente da una recessione ciclica che da una recessione legata a eccessi di bilancio.
Qual è il fattore che potrebbe causare una recessione più grave?
Naturalmente, sussiste sempre la minaccia di un’escalation nel conflitto ucraino. Inoltre, le economie sviluppate dovranno digerire la contrazione di liquidità, che rappresenta sicuramente un “test” per il sistema finanziario. La riduzione dei dollari in circolazione nell’economia globale deve essere digerita.
In questo nuovo contesto, che dire della redditività del capitale a lungo termine?
Nell’ultimo decennio, il premio di rischio ex post sulle azioni si è stabilito tra il 10 e il 15%. Questa redditività “anomala” è legata all’eccezionale iniezione di liquidità da parte delle banche centrali che si è riversata nei mercati finanziari. In questo nuovo contesto, la distribuzione del valore aggiunto sarà più favorevole ai dipendenti a spese degli azionisti. Ciò comporta una revisione al ribasso del rendimento medio del capitale proprio con un premio al rischio che deve normalizzarsi.
È forse in vista la fine del regno del dollaro?
Nel breve termine, il dollaro dovrebbe scendere per ragioni cicliche. Da un punto di vista fondamentale, va accentuandosi lo squilibrio tra il peso “reale” degli Stati Uniti (15% del PIL mondiale) e il ruolo del dollaro nei flussi finanziari. Tuttavia, in questa fase, non vi è alcun segnale che il dollaro stia per essere “spodestato”. Per esempio, mantiene la sua posizione dominante nel finanziamento internazionale (50%) o come riferimento per altre valute (60%). Vi sono buone ragioni per questo: il peso del passato, la profondità dei mercati americani e, soprattutto, l’assenza di una valuta alternativa credibile.
Quale valuta potrebbe sostituire il dollaro?
Nel caso in cui venisse messo in discussione il ruolo del dollaro, la sua egemonia non sarà sostituita da un’altra egemonia. In un mondo ormai multipolare, il Sistema Monetario Internazionale sarà necessariamente multi-valuta. Questo mondo multipolare che si trova ad affrontare sfide globali (ambientali, rischio sanitario ecc.) richiede un ripensamento della governance mondiale.
In conclusione
In che cosa questo contesto modifica il suo metodo di analisi?
I piani di investimento pubblici costringono l’intero ecosistema (aziende, banche centrali) a estendere l’orizzonte. Credo che anche gli economisti debbano fare altrettanto, con urgenza. Finora era consuetudine iniziare con le prospettive congiunturali, poi affrontare l’inflazione e si concludeva con le conseguenze che queste implicavano per la politica monetaria. Ora, quest’ordine deve essere ripensato: in primo luogo, è necessario estendere l’orizzonte guardando alle prospettive di crescita sul lungo termine per dedurne le implicazioni sul regime di inflazione e sulla reazione delle banche centrali. In questo modo si possono ricavare le prospettive congiunturali. Infine, abbiamo bisogno di uno scenario di lungo termine per anticipare gli sviluppi del breve termine.
E per il settore del risparmio gestito?
I massicci acquisti da parte delle banche centrali hanno compromesso la valutazione dei rischi. Questo nuovo contesto è un’ottima notizia per una gestione “attiva” del risparmio e, pertanto, la ricerca diventa più rilevante. Inoltre, sarà necessaria una revisione dei processi di gestione optando per approcci più tattici e contrarian.
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