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10 October 2022

Questa non è stagflazione

Le tensioni sul mercato del lavoro nei Paesi sviluppati non richiamano la stagflazione, anzi, l'attuale contesto di "ricostruzione" è invece più vicino alla reflazione. Di Christophe Morel, capo economista di Groupama AM

Christophe Morel
Christophe Morel, capo economista

Il contesto economico attuale caratterizzato da un’impennata dei prezzi delle materie prime, elevati livelli dell’inflazione e forti incertezze geopolitiche, ricorda gli anni ’70 e, di conseguenza, fa presagire la minaccia della stagflazione. Questa situazione non presenta però tutte le classiche caratteristiche tipiche della stagflazione: alta inflazione, bassa crescita e soprattutto alta disoccupazione. Le tensioni sul mercato del lavoro nei Paesi sviluppati non richiamano la stagflazione, anzi, l’attuale contesto di “ricostruzione” è invece più vicino alla reflazione.

Le tensioni commerciali tra Stati Uniti e Cina, il Covid e la guerra in Ucraina hanno portato in Europa una duplice consapevolezza: la necessità di investire per accelerare la transizione ambientale e la necessità di accelerare l’indipendenza strategica (nei settori della difesa, del digitale, della salute, dell’energia e dell’alimentazione). Per l’Europa, abbiamo stimato che il fabbisogno totale di investimenti aggiuntivi sarà pari a circa il 3% del Pil all’anno per dieci anni: 2% per la transizione ambientale, 0,5% per il digitale, 0,4% per la difesa e 0,3% per la sicurezza energetica. Sapendo che l’occupazione è complementare agli investimenti, ciò significa che per avere successo nelle transizioni economiche, le aziende dovranno sviluppare il capitale umano. Questo slancio negli investimenti pubblici e privati permette persino di considerare la piena occupazione come una prospettiva possibile, invalidando la minaccia della stagflazione.

Una duplice scarsità di manodopera

Oltre a sostenere la crescita e l’occupazione, questa fase di cambiamento dei modelli economici è effettivamente inflazionistica. In effetti, lo stimolo all’investimento nelle economie sviluppate è talmente ampio da scontrarsi con la scarsità di risorse, siano esse capitale fisso, umano o finanziario: l’adeguamento dei modelli economici richiede materie prime che non esistono in quantità sufficiente. Le aziende si trovano ad affrontare una duplice scarsità di manodopera: da un lato, il vincolo demografico riduce la disponibilità di capitale umano, dall’altro le transizioni in atto richiedono nuove competenze non ancora disponibili. Le misure di politica economica riguarderanno sia la formazione e sia una maggiore mobilità di manodopera.

Se il tasso di investimento dovesse aumentare senza un adeguamento dei consumi e del risparmio, si avranno delle tensioni sul mercato delle risorse finanziarie, che si rifletterebbero in un ulteriore aumento dei tassi di interesse reali. Un incremento del 3% sul tasso di investimento, senza alcuna correzione del risparmio, comporterebbe un ulteriore aumento dei tassi di interesse “di equilibrio” di circa 250 punti base, parametrato al Bund.

Cambiamento di paradigma nella politica monetaria

L’inflazione è da considerarsi strutturale e persisterà anche dopo l’eventuale calo dei prezzi di petrolio e gas. Questo contesto inflazionistico comporta un cambio di paradigma nell’atteggiamento delle banche centrali, che hanno il dovere di intervenire se vi è un rischio nel circuito “prezzi-salari”. Per farlo, ovviamente, monitorano attentamente le aspettative di inflazione.

Ma al di là delle aspettative, vi è una soglia di inflazione a partire dalla quale il comportamento economico cambia: le famiglie e le imprese diventano più attente all’andamento dei prezzi e si adeguano in modo più sistematico, in particolare attraverso le richieste salariali. Secondo le nostre stime, tale soglia è pari all’8% e ciò significa che, alla luce degli ultimi dati sull’inflazione (+8,5% su un anno negli Stati Uniti e +8,9% nella zona Euro), il comportamento è destinato a cambiare.

Questo cambio di paradigma si riflette in tre modi. In primo luogo, le banche centrali non possono più mantenere una forward guidance, ossia fornire prospettive di politica monetaria con grande visibilità. Diventando nuovamente “dipendenti dai dati”, alimenterebbero l’incertezza e quindi la volatilità delle curve dei rendimenti. In secondo luogo, facendo tesoro dell’esperienza degli anni ’80, le banche centrali non abbasseranno il tasso di riferimento in caso di recessione per evitare di rialzare le aspettative di inflazione, anche se tale scelta è costosa per la crescita nel breve termine. Infine, la “put” delle banche centrali in caso di correzione dei mercati finanziari non è più automatica. Le recenti dichiarazioni mostrano che il miglioramento delle condizioni finanziarie di quest’estate non è stato percepito positivamente e, in altre parole, i banchieri centrali potrebbero anche augurarsi una correzione dei prezzi dei risky assets.

Le banche centrali, pertanto, intensificheranno la stretta monetaria sia attraverso aumenti dei tassi, ancora sottostimati dai mercati, sia accelerando la riduzione dei propri bilanci.

Recessione in vista

La nuova situazione modifica profondamente la metodologia utilizzata per elaborare uno scenario economico. Finora era consuetudine partire dalle prospettive economiche, poi guardare all’inflazione e, infine, alle implicazioni per la politica monetaria. Oggi questo ordine deve essere ripensato: in primo luogo, è necessario estendere l’orizzonte presentando le prospettive di crescita a lungo termine per capire ciò che questo comporta per il regime di inflazione e la reazione delle banche centrali. Da qui si possono dedurre le prospettive economiche. Da questo punto di vista, le economie sviluppate dovranno affrontare due avversità. In primo luogo, l’aumento dei prezzi delle materie prime causerà una recessione industriale globale entro la fine dell’anno. In secondo luogo, le economie sviluppate dovranno digerire l’aumento dei tassi d’interesse e la riduzione della liquidità, che saranno sicuramente un test per l’economia reale. Poiché l’economia statunitense è la più avanti nella normalizzazione monetaria, sarà la prima a risentirne.

Infine, per i prossimi 18 mesi, le economie sviluppate dovranno affrontare una recessione che darà l’impressione di una stagflazione. Tuttavia, i programmi di investimento e le esigenze di manodopera consentono però di ipotizzare una “fuga dall’alto”, con una auspicata normalizzazione dei tassi di interesse.

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